SHARE

Ciao Nicky, grande generoso campione e ragazzo benvoluto da tutti. Un destino cattivo e crudele ti ha ghermito a migliaia di chilometri dal tuo paese. In quell’Italia che tanto amavi e che da pilota era diventata la tua seconda patria. La sfortuna a volte si diverte ad essere cinica: ti ha lasciato rischiare la vita per 15 anni a 300 all’ora quando guidavi teso e concentrato in pista protetto da casco e tuta, e poi ha deciso di colpirti non appena ti ha trovato fragile e indifeso. In bici per strada durante una giornata di svago.

Con te non muore un pilota qualsiasi ma un campione del mondo. L’ultimo nobile rappresentante di quella dinastia scelta di piloti americani che ha scritto la storia moderna del motociclismo. Sei stato l’ultimo yankee ad aver vinto un titolo mondiale nel motociclismo. Nel 2006. Anzi, sei il solo ad averlo conquistato con le potenti motoGP 4 tempi invece che con le 500 a due tempi.

Prima di te ce ne sono stati altri di ragazzi venuti dagli States ad inseguire il sogno di diventare campioni del mondo. Tutti ragazzi come te che si erano fatti le ossa col dirt track, la guida sugli ovali sterrati in perenne controsterzo, e che hanno importato quello stile di guida spericolato anche sull’asfalto delle piste europee monopolizzando per vent’anni il motomondiale. I loro nomi sono entrati nella leggenda. Da Kenny Roberts, a Freddie Spencer, da Lawson a Rainey, a Schwantz. Fino a te. La maggior parte di loro veniva dalla California, solo tu invece dal Kentucky, un piccolo stato del mid-east, talmente poco conosciuto che nessuno di noi probabilmente saprebbe collocare con precisione nella cartina degli Usa. Ma tu, piccolo provinciale di uno dei più piccoli stati degli Usa, sei diventato rapidamente un cittadino del mondo. Anche se nella tua ingenuità continuavi a stupirti di come nel nostro continente in un’ora di volo si arrivasse in paesi che parlavano una lingua diversa. Nel mondo delle corse ti sei fatto benvolere da tutti per la tua simpatia, la tua schiettezza, la tua semplicità.

Di solito tra i piloti di moto più bravi c’è rivalità, gelosia, freddezza. Non soltanto fra avversari ma anche fra compagni di squadra. Guarda quello che è successo in questi anni fra Rossi e Lorenzo, fra Marquez e Rossi, fra Iannone e Dovizioso. Con te non era così. A te volevano bene tutti. Nessuno ha mai detto una parola cattiva su di te. Né tu lo hai mai fatto. Nemmeno quando ne avevi tutte le ragioni. Per esempio quando Pedrosa, tuo compagno di squadra in quel mondiale 2006, ti ha buttato in terra all’Estoril in una staccata maldestra rischiando di farti perdere il titolo mondiale che poi sei riuscito comunque a vincere all’ultima corsa battendo Valentino. Un altro avrebbe forse preso a pugni il suo compagno di squadra, l’avrebbe insultato, preteso magari il suo appiedamento. Tu non facesti scenate. Anche se eri stato abbattuto dal fuoco amico e non da un avversario.

Forse è per questo tuo carattere generoso, solare, mai polemico, che sei riuscito ad andare sempre d’accordo con tutti. Valentino è stato due volte tuo compagno di squadra, in Honda e Ducati, e parlava solo bene di te. Pedrosa aveva le lacrime agli occhi nel ricordarti. Persino Fernando Alonso, nei giorni scorsi mentre era a Indianapolis a cercare la qualifica per la 500 Miglia, ha voluto ricordarti mettendo sul proprio casco l’adesivo con il tuo numero 69. Un segno d’affetto per renderti omaggio davanti al pubblico dei tuoi connazionali nella gara di auto più famosa del mondo proprio a due passi dal tuo Kentucky. Sai Nicky, se soltanto l’affetto degli amici bastasse a guarire le ferite, ti saresti rialzato subito da quel letto nell’ospedale di Cesena perché l’ondata di emozione che hai sollevato è stata immensa. Purtroppo la morte non fa sconti a nessuno.

Ora Nicky il tuo nome si aggiunge a quello di altri ragazzi americani, piloti di moto, venuti a correre in Italia e caduti sul campo qui nel nostro paese. Lontani migliaia di chilometri da casa. Forse non lo sapevi nemmeno, ma non sei l’unico yankee ad aver trovato drammaticamente la morte qui da noi in Emilia Romagna. Esattamente quarant’anni fa, nel 1977, altri due tuoi colleghi piloti americani sono morti a poche decine di km da dove sei caduto tu. Ad Imola. Durante la famosa 200 Miglia di quell’anno. Anche in quel caso, come con te, il destino ci ha messo la mano con macabre coincidenze. Pat Evans è morto in corsa. A causa di una tragica scivolata al Tamburello, la stessa curva che anni dopo sarà fatale a Senna. La testa che picchia sull’asfalto, proprio come è capitato a te. Un casco di cattiva qualità che cede e provoca le ferite mortali. Ma quasi nessuno sa che Evans aveva cambiato casco proprio prima del via abbandonando il suo tradizionale integrale per indossare quello nuovo ma fragile di un potenziale sponsor. La mano macabra del destino che colpisce quando meno te l’aspetti. L’altro pilota americano vittima del destino è Randy Cleek, addirittura morto in un modo ancora più assurdo. Non in pista ma fuori. Vittima di un incidente stradale mentre tornava in albergo dopo la 200 Miglia. Anche lui, come te, colpito da un destino crudele a gara finita, nel momento in cui era più fragile e indifeso.

Addio Nicky, ultimo americano campione del mondo. Ultimo nobile cavaliere di una dinastia di campioni. Impenna la tua Honda per le piste del cielo. E guardati attorno, che lì da qualche parte c’è anche il Sic che ti aspetta per dare una sgasata insieme a te.

 

SCRIVI UNA RISPOSTA

Please enter your comment!
Please enter your name here