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Oggi, 25 aprile, anniversario della Liberazione, io mi permetto di rivolgere un pensiero affettuoso anche alla memoria di Michele Alboreto. L’ultimo pilota italiano a vincere un Gran premio di Formula Uno al volante di una Ferrari. Alboreto è anche il pilota che aveva fatto cambiare idea a Enzo Ferrari, spingendolo ad accantonare una storica ritrosia verso l’ingaggio di piloti italiani che risaliva a più di di dieci anni prima. In tanti abbiamo sognato che Alboreto potesse concretizzare quel sogno di rivedere un italiano vincere un titolo mondiale con una F1 del Cavallino quarant’anni dopo Ascari.

Alboreto, non soltanto un grande Pilota, ma un grandissimo Uomo, nobile e generoso, che il destino ci ha portato via 19 anni fa durante un test a porte chiuse, sul maledetto circuito del Lausitzring che sarà teatro anche del tragico incidente di Zanardi cinque mesi dopo.

Tanti conoscono la storia di Michele, una mosca banca nel Circus della F1 di allora perché non aveva un famiglia ricca alle spalle, non aveva fatto la trafila formativa del karting eppure con passione e determinazione, partendo da una Formula Monza acquistata con pochi soldi, riuscì a farsi spazio nel mondo all’automobilismo ed a conquistarsi col talento mostrato in pista l’amicizia e il rispetto di mecenati che lo aiutarono piano piano ad arrivare fino in Formula Uno.

Alboreto con la cantante americana Diana Ross e Keke Rosberg sul podio di Las Vegas dove vinse con la Tyrrell il suo primo GP F1 nel 1982

Era una F1 diversa quella degli anni ’80, una F1 dove Alboreto, anche con una vettura non vincente come la Tyrrell ma mettendo a frutto la propria classe il il proprio talento, potè permettersi di vincere due Gran premi, nel 1982 e 1983. Gli anni Ferrari furono entusiasmanti ma difficili, guastati nel finale da un complicato rapporto con John Barnard. Però Alboreto vinse 3 GP con la Ferrari e lottò contro Prost per il titolo mondiale nel 1985 che perse non per colpa sua ma per la fragilità del motore di quella monoposto Ferrari 156/85.

Poi la sfortunata avventura a Indy e l’ultimo suo grande amore: la 24 Ore di Le Mans. La gara che lui reputava la regina di tutte le corse perché così vicina al suo carattere schivo e passionale: accomunava piloti e spettatori nella passione per la competizione senza gerarchie né secondi fini e senza le storture economiche della F1. Una volta, sulla griglia di Le Mans in mezzo alla folla, mi descrisse entusiasticamente questa corsa: guarda che bello – mi disse – qui la gente può venire in griglia e toccare le macchine, parlare con noi piloti prima del via e dar sfogo alla propria passione. Senza barriere. Questo è l’automobilismo vero!

Le Mans, la gara che Michele vinse nel 1997 e che amava al punto che per inseguire il progetto Audi perse la vita il 25 aprile del 2001 in un tragico incidente durante i test privati della R8 causati dall’afflosciamento di una gomma.
Dopo quel giorno, per evitare rischi del genere Audi, decise di introdurre una spia nelle gomme per segnalare sul cruscotto la perdita di pressione negli pneumatici. L’avesse montata l’Audi R8 di Michele all’epoca, quella tragedia non sarebbe mai successa.

Oggi quel dispositivo così semplice ma utile è montato su tutte le auto stradali. E la prossima volta che nella vostra macchina vedrete accendersi sul cruscotto l’indicatore che vi segnala che la gomma si sta sgonfiando, rivolgete nel vostro intimo anche un pensiero a Michele: è pure un po’ merito suo se al volante siamo più sicuri di una volta. È l’eredità che ci ha lasciato e per cui ha sacrificato la propria vita.

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