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Vi ripropongo il mio articolo uscito su Autosprint
n.4 del 14 gennaio 
per spiegare perché
ad accelerare la sostituzione di Arrivabene
non sono state soltanto ragioni sportive
ma anche problematiche finanziarie. 

Ci sono tre aspetti che hanno deciso la sorte di Maurizio Arrivabene: i cattivi risultati sportivi degli ultimi sei mesi, la scadente gestione manageriale della squadra evidenziata dalla spaccatura che si è creata fra lui e lo staff tecnico, e anche il drastico calo del valore delle azioni Ferrari in borsa. Tre aspetti fortemente interconnessi fra loro.

La borsa direte voi? E che c’entra la finanza con una squadra di Formula 1? C’entra pesantemente, perché la Ferrari è una società quotata su ben due piazze finanziarie, Milano e New York, ovvero Piazza Affari e Wall Street. Il valore finanziario della Ferrari dipende dalla quotazione delle sue azioni in borsa. Queste valevano 127 euro a inizio estate, quando Marchionne era ancora in auge e sono precipitate a 85 euro sotto Natale. Un calo superiore al 30%. Non soltanto colpa di Arrivabene, per carità. Ma visto che le vendite di auto stradali vanno bene ed i fatturati sono in crescita, una delle poche cose che possono spiegare tale calo è una sorta di senso di sfiducia che si è diffusa nel mondo degli investitori sulle potenzialità del Cavallino di superare il trauma del dopo-Marchionne e sulle capacità di tornare a vincere in Formula Uno.

L’incognita della borsa

La Ferrari rappresenta un caso molto particolare fra tutte le società di Wall Street (o Piazza Affari): perché in questo caso il valore delle sue azioni non dipende soltanto dal successo commerciale, cioé da quante automobili l’azienda riesce a vendere ogni anno sul mercato e da quanti soldi incassa, ma anche dalle vittorie in Formula 1. Il motivo è semplice: la borsa premia non soltanto i risultati finanziari di un’azienda ma la fiducia nelle prospettive future che quest’azienda riesce a generare fra gli investitori. Chi acquista azioni di un’azienda quotata in borsa lo fa per ottenere a medio termine una cifra più alta di quella investita e ricavare un guadagno. Per cui un’azienda deve ispirare fiducia e sicurezza ai potenziali investitori per avere successo. Questa fiducia dipende dai risultati ma anche dalla forte leadership di chi la comanda. Dalla consapevolezza fra gli investitori che chi la guida riesca a risolvere i problemi strutturali e organizzativi.

Le sconfitte in Formula 1 del 2018, il disorientamento e gli errori di Vettel, e soprattutto la scarsa coesione della squadra e le spaccature che si sono create all’interno della team fra Arrivabene e Binotto, hanno alimentato un’immagine negativa. Hanno fatto perdere agli investitori fiducia nel potenziale di successo del marchio del Cavallino. Una Ferrari che non vince nelle corse incrina quell’immagine di supremazia tecnologica che alimenta le sue auto sportive. Le sconfitte hanno messo in dubbio la fiducia nei confronti della capacità del team di Maranello di risollevarsi dalle sconfitte. Quella stessa fiducia che invece ai tempi di Marchionne non si era mai incrinata grazie alla sicurezza che la leadership di Sergio trasmetteva. Con Sergio c’era entusiasmo e sicurezza per il futuro. Si sapeva che, grazie alla sua determinazione, prima o poi la Ferrari ce l’avrebbe fatta. Senza di lui, quella fiducia nel futuro è venuta meno. E la borsa ha sottolineato questo calo di fiducia. Questo spiega perché John Elkann abbia deciso il “ribaltone” nella gestione sportiva.

Il momento negativo di Monza

Ci sono due momenti precisi in cui la carriera di team principal di Maurizio Arrivabene ha ricevuto i colpi che hanno finito per abbatterla. Monza e Suzuka. Uno è stato il pasticcio in partenza al Gp d’Italia dei due piloti ferraristi che monopolizzavano la prima fila, ma che sono stati mandati allo sbaraglio senza indicazioni tattiche favorendo Hamilton. Quello è stato il primo vero momento in cui la sedia di capo di Arrivabene ha cominciato a traballare. In quell’occasione, Arrivabene ha trasmesso alla gente l’immagine di un capo che non sa gestire una situazione complessa. Generata dal nervosismo di Raikkonen per non essere stato confermato e sfociato in una sorta di vendetta contro il team e contro Vettel. Che per la prima volta, nel momento più cruciale della stagione, non è stato agevolato dal compagno ma piuttosto ostacolato. Ricordate? I due ferraristi si sono marcati a vicenda dopo il via, rallentandosi, col risultato di favorire indirettamente Hamilton. Due mesi dopo, la partenza delle due Mercedes in Brasile dove si sono aperte a ventaglio a far da tappo agli avversari alla prima curva, ha dimostrato invece come si sarebbe potuto attuare un gioco di squadra perfetto a differenza di quello monzese.

La spaccatura Arrivabene-Binotto a Suzuka

L’altro terremoto è stato il disastro di Suzuka. Quando, dopo la quarta sconfitta consecutiva condita dall’ennesimo errore in corsa di Vettel che ha fatto precipitare il tedesco a 67 punti di distacco da Hamilton in classifica, il capo ha “sbroccato” clamorosamente. E invece di tenere i piedi per terra e “fare squadra”, come aveva sempre predicato nei tre anni precedenti, è esploso in una serie di dichiarazioni post gara contro i suoi stessi uomini. Accusandoli di inesperienza e sottolineando poi, fra lo stupore di tutti, la debolezza tecnica della macchina, che pure un mese prima era unanimemente considerata la più competitiva fra tutte. Accuse allo staff sportivo e a quello tecnico. Inspiegabili per un manager che fino al giorno prima era solito far quadrato e ripetere il motto che “si vince o si perde tutti insieme” e che non ci sono responsabilità singole. Suona ancora l’eco delle parole di Arrivabene e della figura del “pistaiolo” che mancherebbe a Maranello, evocato come ideale rimedio all’inesperienza dello staff Rosso che siede al muretto.

In quell’occasione Arrivabene lanciò anche forti accuse ai suoi tecnici. Ed esplose in tutta la sua enormità il dissidio che lo divideva da Binotto. Dissidio sviluppatosi già sotto la gestione Marchionne. Si sa che ormai da più di un anno Sergio all’interno della squadra aveva scelto come punto di riferimento soltanto il tecnico reggiano nato in Svizzera, non più Arrivabene. E l’avvicendamento annunciato dalla Ferrari il 7 gennaio scorso Marchionne l’avrebbe voluto attuare ancora prima, se non fosse morto a luglio. Il nuovo amministratore delegato succeduto a Sergio, Louis Camilleri, vecchio capo di Arrivabene in Philip Morris, aveva invece riconfermato fiducia e pieni poteri al team principal in agosto. Ma anche lui ha dovuto cambiare idea quando quest’inverno il dissidio Arrivabene-Binotto si è fatto più caldo e il direttore tecnico ha posto una sorta di aut aut: o io o lui. Per questo Elkann, per salvare l’unità della struttura tecnica, la più importante e strategica per un team di F.1, ha preferito sacrificare il team principal.

In questo quadro si è indebolita anche la figura dell’a.d. Camilleri, che ha visto sconfessate la sua prime decisioni: la scelta sportiva (Arrivabene) e anche il suo piano industriale presentato a settembre che fra le altre cose prevede una svolta decisa verso Ferrari stradali ibride e il rinvio del Suv Ferrari che tanto auspicava invece Marchionne. Una strategia che ha destato qualche perplessità. Ecco perché è girata la voce di un possibile cambio anche al vertice del management e hanno cominciato a circolare vari nomi tra cui quello del grande ex, Stefano Domenicali.

L’andamento in borsa rispecchia la crisi sportiva

Sovrapponendo l’andamento del mondiale sulle piste con il valore della quotazione in borsa del titolo Ferrari scopriamo quanto le due realtà – quella sportiva e quella finanziaria – siano fortemente interconnesse. I grafici che indicano la quotazione in borsa della Ferrari, col loro andamento altalenante, hanno fotografato impietosamente la sfiducia dell’opinione pubblica in quei momenti.

Dal giorno della morte di Marchionne – 25 luglio – e dal momento in cui Arrivabene ha ottenuto da Camilleri i pieni poteri, il percorso sportivo della Ferrari si è inceppato. Da fine luglio in poi, a partire dal GP Germania simboleggiato dal drammatico errore di Vettel che ha buttato via per un errore da principiante sull’umido la vittoria e la leadership iridata, la Ferrari ha imboccato un tunnel negativo senza fine. Nei GP successivi il Cavallino ha vinto due sole gare (Belgio e Usa) contro le otto della Mercedes; ha raccolto 284 punti contro i 388 della marca tedesca e Hamilton è riuscito a passare da un parziale di -8 in classifica rispetto a Vettel a +67.

Guardiamo il valore del titolo in borsa per farci un’idea. Fino alla primavera il valore del titolo Ferrari era all’apice, sotto la spinta dei successi commerciali e delle vittorie in Formula 1: la quotazione a inizio giugno oscillava fra 113 e 120 euro toccando il massimo della sua storia, 127,6 euro, il 15 giugno. Rimane stabile sopra i 115 euro fino a luglio. Poi nel week end 20-22 luglio inizia la crisi: Vettel quella domenica commette l’errore nel GP Germania e perde la leadership del campionato mentre il mercoledì successivo Marchionne, che era ricoverato in coma da qualche giorno all’ospedale di Zurigo, muore all’improvviso: il titolo Ferrari, da 120 euro del venerdì 20 luglio, precipita a 112 euro quattro giorni dopo, nel giorno della morte del manager italo-canadese.

Ma anche nel momento più drammatico gli investitori non perdono del tutto la fiducia nel Cavallino. La quotazione di borsa si stabilizza poco sotto i 110 euro, anche perché la F.1 è in vacanza e tutti sperano che, morto Marchionne, il nuovo a.d. Camilleri per la parte industriale e Arrivabene nel settore sportivo, sappiano gestire bene questi momenti travagliati.

La doccia fredda arriva a fine estate. Alla ripresa del mondiale la Ferrari vince a sorpresa il Gp del Belgio, ma tracolla sette giorni dopo a Monza. L’errore gestionale di non aver saputo tenere a freno l’esuberanza dei suoi piloti fa scendere il titolo di qualche punto: l’azione che era risalita un poco, cala ancora a 109 euro, ma non è un vero crollo perché in quel momento la situazione pare recuperabile. Si spera ancora. Anzi, nelle gare successive il titolo azionario si risolleva vistosamente. In coincidenza col piano industriale presentato il 18 settembre che rilancia le quotazioni sopra i 117 euro e per via delle nuove eccitanti auto stradali presentate al salone di Parigi di inizio ottobre. Le “barchette” SP1 e SP2 che saranno costruite in serie limitata in soli 500 esemplari, dal costo di 1,8 milioni di euro l’una, esauriscono subito le prenotazioni e fanno presagire un incasso di quasi un miliardo dalla vendita. È l’ultimo benefico effetto delle scelte di Marchionne e grazie a quella ventata di ottimismo sui futuri guadagni, il titolo Ferrari sale ancora a quota 120 euro (26 settembre).

Il calo in borsa inizia dopo il GP Gappone

Col titolo azionario di nuovo alle stelle, arriva il Gp Giappone, con la nuova disastrosa sconfitta di Vettel e il rimpallarsi di accuse fra Arrivabene e lo staff tecnico. A sorpresa il team principal, invece di puntare il dito contro gli errori del pilota, accusa l’impreparazione della sua stessa squadra e i mancati sviluppi tecnici. La squadra si spacca. L’umore crolla sotto le scarpe. I tecnici si rivoltano, Binotto sentendosi al centro delle accuse, medita di lasciare Maranello. La classifica iridata langue e il valore del titolo in borsa rispecchia questa crisi: in due settimane la quotazione precipita da 120 euro a sotto i 100 arrestandosi a 99,14 euro. Un calo del 20% secco in 15 giorni.

Hanno la propria influenza anche i primi riscontri negativi sul piano industriale presentato da Camilleri: gli analisti scoprono che il SUV, che Marchionne voleva pronto tutti i costi nel 2020 per aumentare drasticamente le vendite del Cavallino, viene procrastinato di qualche anno. E la borsa punisce la Ferrari per questa incertezza facendo scendere drasticamente il titolo.

Nemmeno la vittoria di Raikkonen ad Austin, in Usa dove la Ferrari è quotata a Wall Street, genera entusiasmo e fa risalire il titolo che rimane bloccato sotto quota 100 euro. È lo specchio del problema: gli investitori stanno perdendo fiducia nella leadership del Cavallino.

foto Motorsport images

Il picco negativo autunnale la borsa lo toccherà il giorno dopo il Gp del Brasile, quando la Mercedes conquista matematicamente il campionato del mondo F.1. Quel 12 novembre il titolo scende a quota 95,34 euro: il valore più basso della Ferrari in borsa da un anno a quella parte. E da lì la discesa continuerà fino ai giorni dopo Natale quando, il 27 dicembre, il valore del titolo Ferrari cala sotto la soglia psicologica dei 90 euro: 89,3. Che vuol dire? Che la Ferrari, che nei giorni di metà estate con Marchionne in auge valeva complessivamente qualcosa come 24,7 miliardi di euro – tanta era la sua capitalizzazione di borsa – con l’azione scesa a 85 euro ha un valore di 16,5 miliardi. Vale a dire 8 miliardi in meno.

Bilancio di successo, crisi di immagine e ripresa

Il calo nel valore di borsa avviene nonostante le vendite e il bilancio vadano a gonfie vele: nei primi 9 mesi 2018 (l’ultimo dato pubblico) la Ferrari ha venduto 6.853 vetture con un ricavo di 2,57 miliardi e un utile netto di 841 milioni di euro. Vuol dire che in previsione il Cavallino chiuderà l’anno con una vendite di circa 9000 auto e un utile netto di oltre un miliardo. Allora perché la borsa non la premia di più? Proprio perché c’è poca fiducia nelle capacità dell’azienda di confermarsi in futuro a livello industriale e sportivo. Gli investitori pensano che il nuovo management non abbia le stesse eccezionali capacità di Marchionne. Starà a Elkann e Camilleri per la parte industriale, a Binotto per quella sportiva, convincerli con i fatti.

La sostituzione di Arrivabene con Binotto annunciata il 7 gennaio sortisce un effetto benefico: il giorno dopo il “ribaltone”, il titolo comincia a risalire e da 89 euro che era nel giro di venti giorni ritorna a sfiorare quota 100 euro. Tanto per capire quanto conti nella quotazione di borsa di una azienda non soltanto industriale ma anche sportiva, l’influenza della parte agonistica.

Per adesso la Ferrari 2019 riparte dalla squadra che voleva Marchionne: fuori Arrivabene e via Raikkonen, dentro Leclerc al fianco di Vettel e Binotto al muretto di comando. Quasi lo stesso dream team che sognava il manager italo-canadese. Quasi, perché manca un ultimo tassello: quell’uomo di grande esperienza F.1 che Marchionne voleva aggiungere alla formazione 2019 per rafforzarla e che invece per adesso resta dov’è. Ma John Elkann sa chi è e come reclutarlo in caso di necessità.

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