Nel giorno del compleanno della Ferrari F40 ripropongo il mio test con quella che a buon diritto può essere definita la prima hypercar dell’era moderna. La Ferrari F40. Dura e pura, sempre di traverso.
Anche se aveva “soltanto” 478 cavalli, oggi raggiunti persino da diverse berline o SUV alto di gamma, quelli della F40 erano cavalli davvero brutali. Capaci di disarcionarti in un attimo perché non mitigati da alcun aiuto elettronico alla guida. Buona lettura!
La Ferrari F40, nella storia di Maranello, è la prima Ferrari celebrativa. Voluta da Enzo Ferrari per omaggiare i quarant’anni dalla fondazione del marchio, nato nel 1947. Un’automobile figlia ancora dei quei tempi in cui le auto sportive erano dure e pure. Fu la macchina che inaugurò la moda delle supercar a prezzi mozzafiato. D’altronde eravamo nei lussuriosi anni ‘80, e la F40 costruita in tiratura limitata (mille esemplari previsti diventati poi 1311), era ambita da tanti nuovi ricchi. Talmente esclusiva che, venduta in origine da Maranello a 374 milioni di lire dell’epoca, nelle aste andò facilmente sopra il miliardo. Ferrari usava la F40 persino come benefit/cambio marce per pagare lo stipendio ai suoi piloti di F1 dell’epoca (Mansell, Prost) ed abbassare l’importo dovuto in contanti.
Negli Anni ’80 in Formula Uno dominava il motore turbo e la Ferrari era all’avanguardia nello sviluppo dei propulsori sovralimentati. Così fu deciso che la supercar pensata per celebrare i 40 anni del Cavallino doveva sfoggiare quella tecnologia che aveva portato la Ferrari a sfiorare i titoli mondiali con Villeneuve (1981), Pironi (1982), Tambay (1983) e poi con Alboreto (1985).
La F40 fu il frutto dell’evoluzione estrema di un modello precedente, la 288 GTO, la prima berlinetta turbo di Maranello. La GTO però era un’auto basata sulle forme e sulla carrozzeria di una normalissima 308, il modello base del Cavallino, e con la 308 si confondeva esteticamente. Per cui la tecnologia sotto il cofano non riceveva il giusto risalto d’immagine. Perciò Ferrari diede incarico all’ingegnere Nicola Materazzi, il responsabile tecnico del progetto, di estremizzare la GTO per trasformarla in una vera supercar celebrativa. Materazzi ricorse alla tecnologia più avanzata che Maranello potesse offrire. Soltanto per il telaio si preferì una tecnologia tradizionale: il classico traliccio in tubi, di tradizione Ferrari. Anche se Maranello già dal 1983 aveva cominciato a padroneggiare perfettamente la tecnologia dei materiali compositi, kevlar e carbonio, per i telai F1, non esistevano i mezzi per produrre in serie chassis in composito, pur se in pochi esemplari.
Si ricorse invece a vetroresina e kevlar per porte e cofani per abbassare i pesi. Seguendo il principio delle corse: ogni chilo di troppo era dannoso perché avrebbe penalizzato le prestazioni. Ecco perché l’interno della F40 è molto spartano: i sedili erano due gusci ricoperti di stoffa rossa, cruscotto ridotto al necessario, niente autoradio, persino i vetri furono sacrificati per finestrini di plastica con feritoia scorrevole come sulle auto da corsa. Unica concessione al comfort: l’aria condizionata perché il motore appena dietro l’abitacolo con gli enormi scambiatori di calore del turbo sovrastanti, scaldava più di una stufa.
Per l’aerodinamica della F40 l’ing. Materazzi prese ad esempio le forme dei prototipi gruppo B, le GT da corsa dell’epoca. Il muso divenne quasi a cuneo con i fari incastonati all’interno, ampio labbro deportante anteriore, un’enorme ala posteriore fissa per tenere giù il retrotreno perché la potenza era spaventosa per l’epoca. Il motore V8 2 litri turbo della GTO fu portato a 3 litri, mantenendo le bancate a 90° e si ottennero la bellezza di 478 cavalli. Al confronto con le hypercar di oggi da mille cavalli sembrano pochi, ma quei 478 cavalli erano peggio di altrettanti muli: scalciavano nella schiena come pazzi se non sapevi dosare il gas. E nel 1987 non c’erano software che addolcissero l’erogazione della coppia per rendere più “guidabile” un motore scorbutico come il turbo che soffriva di ritardi alla risposta. L’elettronica si limitava a comandare semplicemente l’iniezione e a ottimizzare i gravi problemi di raffreddamento che erano emersi nei collaudi con i prototipi. I primi sistemi di engine management moderni fecero capolino in F1 solo a metà anni ‘80 soprattutto per calcolare/dosare i consumi di una formula che aveva benzina contingentata. E questa necessità non serviva sui motori stradali.
Per tutti questi motivi, guidando una F40 oggi e confrontandola con le supercar moderne, ci si trova a concludere che sia una belva abbastanza intrattabile. Michele Alboreto, pilota Ferrari F1 dell’epoca, la paragonava a un cane lupo: potevi accarezzarla ma dovevi sempre stare attento che non ti mordesse. E raccontò di come, durante un collaudo stradale, semplicemente sgasando da fermo al semaforo, avesse praticamente ustionato un ciclista dietro di lui per via della sfiammata in rilascio dallo scarico del turbo!
Seduti oggi dentro una F40 sembra di immergersi in una vera auto da corsa gruppo B dell’epoca. Volante spartano, pedaliera in alluminio molto essenziale, nessun comando, nessuno switch da girare mentre si guida. Solo un continuo lavoro di controsterzo perché tenere le ruote dritte in accelerazione è affare per pochi. Il rombo è esaltante anche se si tratta di un turbo perché la F40 del nostro test è priva dei silenziatori stradali e ha tre bei collettori di scarico che escono quasi rettilinei girando sopra la V del motore fino in basso. Altro che rumore soffocato delle F1 turbo moderne!
Ho anche assaporato qualche giro sulla pista di Fiorano seduto di fianco a Dario Benuzzi, storico collaudatore del Cavallino. Mentre guida, lo osservo lavorare di frizione, gas, cambio e sterzo continuamente. La F40 è parecchio nervosa quando si accelera a fondo. Da zero a cento all’ora accelera in 4”1, che trent’anni fa era un tempo da Formula Uno mentre oggi è quello che riesce a fare una qualsiasi berlina moderna ben motorizzata, come ad esempio una BMW M3. La differenza è che percorrere lo 0-100 in 4” con la M4 è un gioco da ragazzi: basta tenere giù il gas e l’elettronica aiuta a fare tutto il resto. Fare quel tempo nello scatto da fermo con una Ferrari F40 accelerando senza l’aiuto di controlli elettronici e dosando il patinamento delle ruote, è un’impresa riservata a pochi esperti. La coppia massima è tanta a causa del turbo (577 Nm) e soprattutto viene erogata a un regime elevato, a 4000 giri. Per cui quando il motore entra in coppia, è una botta nella schiena. Puoi avere le ruote davanti dritte quanto vuoi, ma nelle marce basse le ruote pattinano continuamente, il motore sale di giri e il retrotreno scappa via.
Il cambio è di quelli old style: una bella leva con 5 marce a innesti frontali (solo alcune F40 disponevano di questa variante racing della trasmissione) che richiede una decisa doppietta da eseguire alla perfezione per scalare le marce. Osservare il punta/tacco di Benuzzi, vedere i suoi piedi muoversi rapidamente fra i pedali in alluminio come ballasse il tip-tap, è un piacere. Se non sa eseguire la doppietta alla perfezione lui, che con i ruvidi cambi Ferrari c’è cresciuto, chi altro?
“Anche se sono passati quasi trent’anni – dice Benuzzi – la F40 è tuttora una vettura che fa venire i brividi. Ci vuole rispetto, ma si lascia guidare. All’inizio devi prenderla con le molle: in uscita di curva se non dosi bene il pedale del gas, rischi di girarti facilmente su te stesso. Però la macchina si dimostra molto neutra e stabile anche con i riferimenti odierni. Per come va forte in pista, non diresti che sono passati trent’anni”.
Riguidandola oggi, Benuzzi apprezza soprattutto una cosa della F40: “L’auto è leggera. Un colpo di sterzo e cambi direzione facilmente. È maneggevole, diretta”. Notevole, pensando che non ha nemmeno il servosterzo e lo sterzo è durissimo nelle manovre a bassa velocità. In effetti la F40 pesa appena 1100 kg perché è spoglia di tante tecnologie oggi obbligatorie. Un supercar dura e pura. Nell’essenza e nella guida. “Ancora oggi guidarla mi fa venire la pelle d’oca”, conclude Benuzzi estasiato.