C’è una grande discussione in atto in questi giorni attorno alla figura di Marchionne. Manager eccezionale oppure troppo duro e spregiudicato? Ripubblico uno stralcio dell’articolo che ho scritto su Autosprint del 24 luglio per raccontarvi dal mio punto di vista di giornalista che per 13 anni, dalla prima apparizione al salone di Francoforte nel 2005 quando era fresco di nomina e ancora indossava giacca e cravatta, ha vissuto il percorso professionale di Sergio Marchionne. Via spiego perché a mio parere è stato un uomo geniale e grandioso che ha saputo scardinare le regole del gioco per raddrizzare le aziende che ha gestito.
Si fa torto a qualcuno dicendo che Sergio Marchionne è stato il più grande manager italiano del dopoguerra? Manager, non imprenditore, capiamoci bene. Marchionne non ha posseduto società, ma le ha gestite, le ha fatte funzionare e ne ha decuplicato il valore ricavando profitti miliardari ai proprietari ma garantendo anche il lavoro a centinaia di migliaia di dipendenti. Basta questo a renderlo il più grande.
È l’uomo che nel bene e nel male ha salvato la Fiat, rilanciato la Ferrari e cambiato profondamente la stessa società italiana. Sia a livello industriale che sociale. Non solo Marchionne ha trasformato un’azienda privata italiana in un gruppo industriale globale con radici sparse fra l’Europa e gli Stati Uniti, ma ha anche cambiato le regole del gioco fra impresa e lavoratori. Ha introdotto il concetto di flessibilità cancellando abitudini di accordi sindacali consolidati e uscendo persino da Confindustria per agire più liberamente.
Soprattutto, cosa cui non tutti gli rendono sufficiente merito, ha salvato la Fiat dal fallimento. Senza di lui centomila dipendenti non avrebbero più avuto un lavoro dopo il 2004. Quando gli sono state affidate le redini della Fiat, nel 2004, la società era in profonda crisi e capitalizzava poco più di 5 miliardi di euro. Era tecnicamente fallita. Non aveva i soldi per pagare i propri debiti e gli stipendi nei mesi successivi. In quattordici anni Marchionne l’ha portata a un valore complessivo di oltre 65 miliardi facendola diventare la settima industria automobilistica del mondo, scorporando e quotando in borsa la Ferrari che prima era parte del gruppo Fiat mentre poi, da sola, ha capitalizzato quasi 25 miliardi. Marchionne insomma ha creato valore per le aziende che guidava e ha creato lavoro per i dipendenti Fiat salvando l’azienda dal fallimento. Questo merito nessuno, nemmeno il più acerrimo dei suoi nemici come i sindacalisti della Fiom che l’hanno spesso combattuto, potrà mai toglierglielo.
GLI INIZI IN FIAT
A Torino Marchionne arrivò praticamente da sconosciuto nel 2004. Era appena morto Umberto Agnelli e la famiglia aveva estromesso brutalmente l’ad Giuseppe Morchio, che aveva avuto l’ardore di chiedere, direttamente al funerale di Umberto, di entrare come socio nell’azienda. Ma chi mettere al suo posto? Montezemolo fu scelto presidente, ma a chi affidare il gravoso compito della gestione quotidiana dell’azienda che deve sorbirsi l’amministratore delegato? Qualcuno si ricordò che Umberto Agnelli, prima di morire, aveva parlato benissimo di un tal Sergio Marchionne, esperto di economia, italiano di Chieti emigrato in Canada e ora cittadino svizzero che dirigeva una piccola compagnia finanziaria satellite del gruppo, la Sgs.
Marchionne fu convocato e assunse l’incarico. All’epoca indossava ancora giacca e cravatta. La Fiat a quell’epoca aveva un indebitamento di qualcosa come otto miliardi di euro. Era alle soglie del fallimento. In cassa c’erano soldi per pochi mesi di stipendio delle maestranze. Marchionne all’inizio non diresse direttamente il settore dell’auto, ma l’intero gruppo industriale. C’erano altri manager alla guida di Fiat, Alfa e Lancia. Un ingegnere austriaco e uno tedesco ex BMW. Bastò un anno e mezzo a Marchionne per capire che non facevano al caso suo. Come sarebbe successo dieci anni dopo in Ferrari, quei manager-tecnici erano lenti e troppo esitanti a prendere decisioni per riuscire a rivoluzionare. Erano abituati con calma, alla tedesca, a sperimentare ben bene prima di costruire. Marchionne gli fece capire che non c’era tempo. Mancavano i soldi per sopravvivere così a lungo se non si costruivano in fretta nuove auto da vendere per fare cassa. Li mandò via e assunse in prima persona l’incarico di amministratore delegato di Fiat Auto, Alfa e Lancia. Un finanziere alle prese con la meccanica. Cosa ci avrebbe capito? Qui è uscita fuori la grande dote di Marchionne a cui ha fatto ricorso anche quando ha rilanciato la Ferrari: saper individuare quelli bravi e sottostimati. E valorizzare il loro coraggio di osare. Così ha dato un impulso formidabile all’azienda e il primo anno nacque la nuova Punto, l’anno dopo la 500. Due boom. Con i soldi guadagnati la Fiat poté risollevare le finanze e investire sul futuro.
LA SFIDA FERRARI
La Ferrari era il suo ultimo amore. Forse per quello il più intenso. Marchionne era talmente legato al Cavallino che nel suo account WhatsApp, come icona, non c’era la sua fotografia ma l’immagine di una Ferrari F.1 con Vettel che supera una Mercedes. Un amore passionale quello per il marchio. Sbocciato però in tempi recenti. Di automobili e di corse, un tempo Marchionne non ne capiva quasi nulla. Non aveva avuto tempo per interessarsene. Apprezzava le Ferrari come qualsiasi italiano che vive all’estero perché il Cavallino è un mito, la nazionale sportiva dei motori del suo paese per un emigrato. Ma nulla di più. Quando viveva in Svizzera e dirigeva la Sgs, possedeva e guidava sempre vetture Audi. La precisione e l’eleganza delle auto premium tedesche a quel tempo lo affascinava. Prima ancora invece aveva amato e posseduto auto Lancia.
Marchionne ha cominciato a scoprire la Ferrari negli anni in cui era amministratore delegato Fiat, sotto Montezemolo che era il potente presidente di Fiat e di Ferrari. La scoprì prima da cliente e appassionato, poi da manager. Con una parte dei (tanti) soldi di bonus che ogni anno guadagnava, si era prima comprato una Ferrari 599, poi avrebbe avuto tutte le supercar più belle del Cavallino. Non perché fossero uno status symbol, ma semplicemente perché gli piacevano. Non le prendeva sempre rosse, ma a volte anche nere. Il suo colore preferito, come i maglioni di cotone che indossava perennemente. Ma siccome era abbastanza inesperto al volante, rigoroso e preciso com’era, Marchionne aveva voluto prendere lezioni di pilotaggio di guida veloce. Per potersi gustare con maggiore sicurezza le sue Ferrari. In gran segreto sulla pista privata della Fiat a Balocco, off limits per i curiosi, ogni tanto si cimentava al volante delle auto del cavallino sotto l’occhio vigile di alcuni istruttori di guida veloce che gli insegnavano le tecniche rudimentali per domare i cinque-seicento cavalli delle Ferrari.
IL SUCCESSO IN BORSA
La presidenza Ferrari Marchionne l’ha conquistata nel settembre 2014, per volontà di Elkann, estromettendo Montezemolo che ormai non era più nelle simpatie della famiglia. Un passaggio di consegne rude e non privo di rancori. All’inizio Marchionne vedeva il vantaggio finanziario che poteva generare il nome Ferrari, non i risvolti meccanici né tantomeno quelli sportivi. Era affascinato dal potenziale del marchio del cavallino che secondo lui avrebbe dovuto avere lo stesso plusvalore dei brand di lusso, come Vuitton e Cartier. Così a gennaio 2016 l’ha quotata in borsa, a Wall Street e Milano: Lanciata con il valore di 38 euro, l’azione Ferrari in due anni e mezzo ha più che triplicato il proprio valore superando quota 122 euro. Un successo enorme. Ma nello stesso tempo Marchionne è stato abile a capire che una Ferrari perdente sulle piste F.1 avrebbe indebolito pure il valore del marchio. Perciò ha rivoluzionato la squadra. Ha il grandissimo merito di averla rigenerata, di averla motivata, dando spazio ai tecnici e alla creatività italiana. Niente nomi blasonati di tecnici stranieri iperpagati, niente superstar ma al loro posto la forza del gruppo e del collettivo. Ha realizzato nel giro di due anni la famosa struttura “orizzontale”. La Ferrari di tutti. Priva di gerarchia verticale. Un team dove ciascuno porta nel suo piccolo il proprio contributo di idee. E i risultati sono davanti agli occhi di tutti. È ancora leggendaria tra i membri del reparto corse la prima mossa che fece Marchionne, tappezzare il reparto corse e gli uffici tecnici delle foto della Mercedes F.1 per far capire a tutti che quello era “il nemico da battere”; averlo sempre sott’occhio – sosteneva – avrebbe contribuito a motivare ancora di più la squadra verso il sorpasso. Sembrava una boutade nel 2015, ma tre anni dopo nessuno più pensa che la Mercedes sia ancora la miglior F.1 del mondiale.
I 3 GRANDI MERITI DI MARCHIONNE
Tre sono stati i grandi meriti di Marchionne che col senno di poi hanno salvato la Fiat dal fallimento. Primo e meno conosciuto, ma basilare per il futuro, è la rinegoziazione del famoso “convertendo” con la General Motors. Nel 2005 Marchionne è riuscito a farsi pagare dagli americani un miliardo e mezzo di euro per svincolarli da un impegno firmato cinque anni prima che non volevano più rispettare. Quei soldi, versati nelle casse torinesi, hanno ridato ossigeno ai conti Fiat. Con quel denaro Marchionne si è pagato lo sviluppo dei nuovi modelli Panda, Punto e 500 prodotti fra il 2006 e il 2007 che hanno portato altri capitali freschi. La terza grande impresa è stata l’aver acquistato nel 2009 la quasi fallita Chrysler a costi ridottissimi grazie alla mediazione di Obama e del governo Usa. Cosa che gli ha portato in dote anche la Jeep che è diventata la vera fabbrica di soldi del gruppo FCA perché è passata da 300mila auto vendute nel 2009 a 1,5 milioni di Jeep commercializzate oggi. La Ferrari è un successo a parte. Il suo fiore all’occhiello. La sua passione recente. Che gli piaceva così tanto da tenere sempre sott’occhio, durante le conferenze stampa ai saloni dell’auto invernali, un telefonino dove riceveva gli aggiornamento in tempo reale dei crono durante i test invernali.
LA PENSIONE A MARANELLO
Aveva deciso di lasciare FCA a inizio 2019, tra pochi mesi. Aveva ritenuto compiuto il cammino manageriale per cui era stato assunto: aveva ridotto a zero l’indebitamento societario dai 9 miliardi in cui aveva preso in mano l’azienda nel 2004. Per festeggiare il traguardo, il 1 giugno scorso all’assemblea degli azionisti aveva anche indossato la cravatta come non faceva più da dieci anni, citando scherzosamente un verso di Oscar Wilde: “Una cravatta bene annodata è il primo passo per diventare una persona seria”. Però sarebbe rimasto presidente Ferrari fino al 2020. Sarebbe stata la sua pensione dorata. Occuparsi solo del marchio che gli era caro, del nuovo Ferrari Suv e di vincere finalmente quel titolo mondiale che manca a Maranello dal 2008.