Questo articolo su Gilles Villeneuve è apparso due anni fa.
Oggi è la ricorrenza della 40 anni dalla morte di Gilles
perciò lo ripubblico in sua memoria a beneficio di chi non l’aveva letto.
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«Aspettami, non ci metterò molto». Diceva sempre così Gilles alla moglie Johanna in griglia, dandole un fugace bacio e affidandole gli occhiali da sole prima di indossare il casco e salire sulla sua Ferrari. Era un frase ormai consueta, che Gilles ripeteva per abitudine e risaliva addirittura ai tempi delle gare di motoslitta dove Villeneuve cominciò la carriera di pilota. A volte non ci metteva davvero molto Gilles a tornare da lei. Una gara di F1 dura circa un’ora e mezzo, ma spesso il Gilles dei primi tempi era fuori corsa ben prima della fine. Come in Giappone, al suo secondo GP con la Ferrari quando dopo 7 giri decollò sulle ruote della Tyrrell di Peterson e si cappottò a bordo pista. O come a Zandvoort ‘81 quando si insabbiò alla prima curva.
Invece quell’8 maggio 1982 Johanna Villeneuve non era ai box di Zolder, in Belgio, come sempre. E Gilles non potè dirle la fatidica frase prima di indossare il casco e lanciarsi in pista per l’ultima qualifica della sua vita. I rapporti tra i due erano ormai deteriorati e Gilles preparava il divorzio. Dalla moglie e pure dalla Ferrari. Johanna era rimasta a Montecarlo, a preparare la festa per la cresima della figlia Melanie e sorrideva in casa addobbando la ragazzina, inconsapevole del dramma che si stava consumando a mille chilometri di distanza. All’epoca le prove di F1 non venivano trasmesse in tv, non esisteva internet e anche le comunicazioni internazionali non erano così semplici come oggi. Johanna venne a sapere dell’incidente da una telefonata di Jody Scheckter, suo ex compagno in Ferrari, uno di pochissimi piloti amici di Gilles. Jody, che si era ritirato dai GP due anni prima e viveva a Montecarlo pure lui, si prese la triste incombenza di informare Johanna del dramma capitato al marito durante le qualifiche del GP Belgio e assisterla nei primi momenti. Noleggiò personalmente un aereo privato per far giungere con urgenza Johanna in Belgio al capezzale del marito, nell’ospedale di Lovanio. Ma in quella prima telefonata Scheckter non ebbe il coraggio di dirle tutta la verità. Parlò di “gravissimo incidente a Gilles”. Poi, per calmarla, aggiunse la frase: “…ma ci sono speranze”. Ma era una pietosa bugia. Gilles era già pressoché morto nell’impatto per la frattura della base cranica e delle vertebre cervicali, anche se il suo cuore che emetteva un lievissimo battito, smise di pulsare solo a tarda sera, alle 21.12, quando Johanna era da poco giunta al suo capezzale.
Se non fosse morto 40 anni fa come sarebbe Gilles adesso? Oggi avrebbe 72 anni. Provando a fantasticare ce lo immaginiamo con i capelli con la riga in mezzo come una volta ma decisamente imbiancati e un po’ stempiato (già all’epoca perdeva i capelli), il fisico minuto forse un po’ appesantito, il viso attraversato da qualche ruga ma sempre con quei lineamenti morbidi da bambino. Magari indosserebbe gli occhiali, come suo figlio Jacques. Magari vivrebbe in Canada, dove era nato, e ce lo immaginiamo ogni tanto con una di quelle camicione di flanella a quadrettoni che indossa talvolta anche suo figlio, camminare per i boschi del Quebec. Di certo non userebbe un’auto elettrica, semmai un muscoloso pick-up americano V8 con gommoni larghi e assetto rialzato. E sicuramente, anche se settantaduenne, farebbe ancora il matto per la strada al volante. Anzi, forse con le severe regole di oggi, gli toglierebbero la patente un giorno sì e l’altro pure. D’altronde, Gilles era più matto per le strade che sulle piste. Si presentò una volta ai Caschi d’Oro di Autosprint impiegando con la sua Ferrari 308 appena due ore e tre quarti da Montecarlo a Bologna nonostante una fitta nebbia. Scheckter ricorda ancora lo spavento che Gilles gli fece prendere una volta sull’autostrada ligure, con la stessa 308, quando tirò all’improvviso il freno a mano per fare un testa-coda a 360° nel traffico e ripartire fra i clacson strombazzanti. Quando si diede all’elicottero, tendeva a guidarlo come un’automobile. Invece di usare la guida strumentale viaggiava a vista, volando sopra le autostrade per seguire dall’alto il percorso e per orientarsi talvolta si abbassava rasoterra per leggere i cartelli delle uscite autostradali e capire meglio che direzione prendere.
L’impresa più esaltante di Gilles fu quella sfida a Istrana, base militare del 51° stormo dell’aviazione, con la sua Ferrari F1 contro i caccia F-104. Una sfida di accelerazione pura organizzata da Rombo e dall’Aeronautica militare, cui prontamente la Ferrari ma anche tutte le F1 sponsorizzate italiane come Brabham-Parmalat, Arrows-Ragno e Alfa Romeo aderirono. Davanti a centomila persone entrate gratuitamente nella base che quel giorno volle aprire le proprie porte alla gente di tutti i giorni, Villeneuve si esaltò vincendo la sfida di accelerazione. E quando tornò all’hangar seguito da un codazzo di persone, vedendo quella scena nacque l’immagine della “cometa Gilles”: la Ferrari con Gilles dentro era la stella cometa e il codazzo di tifosi che gli correva dietro erano la scia della cometa.
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Oggi non sapremo mai che aspetto avrebbe potuto avere Gilles Villeneuve a 72 anni. Il destino ce lo ha portato via giovane, 40 anni fa. Come Ayrton Senna, come capitato a Jochen Rindt, a Elio de Angelis, a Michele Alboreto, a Jo Siffert, a Ronnie Peterson, a Luigi Musso ed Eugenio Castellotti ed a tantissimi altri campioni di automobilismo che la sorte ha voluto strappare alla vita prima del tempo. Ma Villeneuve, fra tutti, è il pilota cheppia dei tutti ha fatto breccia nel cuore degli appassionati di corse del XX secolo. E nel mio. Come soltanto Senna. Solo che Ayrton era un campione consacrato, il più forte della sua epoca; aveva vinto tutto per cui era naturale che la tragica e improvvisa morte lo trasformasse in leggenda. Gilles Villeneuve invece non è stato un vincente assoluto e totalitario come Senna. Ha attraversato il mondo della F1 come una meteora, correndo in F1 soltanto per poco più di quattro anni – anche se con la Ferrari – e vincendo appena 6 Gran Premi. Un palmares tutto sommato modesto. Ma è entrato lo stesso nel cuore di milioni di appassionati per le sue gesta eroiche.
Che cosa ha reso grande Villeneuve che pure non era un tipo affabile ed empatico, ma al contrario timido e scontroso? Il suo stile di guida spettacolare (che vedete simboleggiato nella splendida foto di Ercole Colombo qui sopra). E poi il suo talento. La sua grinta. Le imprese impossibili che ha compiuto al volante della Ferrari. Villeneuve era la personificazione del Pilota con la P maiuscola. Tutto coraggio e temerarietà. Il cavaliere del Rischio per antonomasia. Un Nuvolari moderno. Rispecchiava quello che noi tutti, forse in privato sogniamo di essere: un supereroe con il mantello e i superpoteri capace di imprese impossibili. Vincere con un sorpasso mozzafiato all’ultimo giro oppure combattere e non arrendersi mai, cercare di portare la macchina al traguardo anche se a pezzi e senza ruote. Come Nuvolari divenne famoso per aver vinto una Mille Miglia superando Varzi a fari spenti nella notte per sorprenderlo in scia, così Villeneuve esaltò le folle concludendo un GP in Canada sotto la pioggia con l’alettone anteriore divelto, piegato davanti al casco che gli faceva da schermo e gli impediva di vedere la strada. Guidò sulla pista di Montreal a memoria, e per trovare il punto di inserimento in curva guardava di lato le tracce lasciate sul bagnato dalle gomme delle altre F1.
Non sono tanto le vittorie che hanno esaltato la leggenda di Gilles, quanto le sue imprese al limite del disperato. Il ruota a ruota con Arnoux a Digione per avere la meglio sulla Renault turbo che era più veloce della sua Ferrari aspirata è un capolavoro di storia automobilistica, di guida al limite ma anche di rispetto estremo fra colleghi. Infatti Gilles e René non hanno terminato la corsa ruote all’aria ma sul podio. Il loro duello rivedo ma senza scorrettezze andrebbe fatto vedere come esempio ai briefing F1 dei piloti quando i corridori di oggi si lamentano che tizio non gli ha dato strada o che caio gli ha dato una toccatina. Anche se magari oggi la Fia che ragiona col metro dei professorini di matematica li avrebbe squalificati per un anno intero. Il bello è che né Gilles né Arnoux vinsero quella gara, ma oggi nessuno si ricorda più che quel GP a Digione lo conquistò Jabouille e che il motore turbo Renault ottenne la prima storica vittoria, ma ci si ricorda soltanto di quel duello mozzafiato per la seconda posizione.
Ma nel mio cuore l’impresa più bella di Gilles resta il giro su tre ruote a Zandvoort. Quando cercò disperatamente di continuare la gara con la Ferrari che dopo un fuoripista aveva il mozzo posteriore sinistro staccato. Le immagini tv di quarant’anni fa, fanno rivivere la sensazione di disperata determinazione di Gilles che tornando ai box chiedeva ai meccanici di cambiargli la ruota danneggiata per ripartire. E loro cercavano di fargli capire che no, non si poteva. Non si era soltanto rotto il cerchio ma s’era proprio staccato il mozzo dal semiasse! Quel dialogo a gesti fra Gilles che si sbracciava dall’abitacolo e i meccanici che agitavano le braccia in segno di diniego, in un’epoca in cui non c’erano ancora i collegamenti radio box-pilota, è un dialogo muto ben più fragoroso ed esplicito di un team radio moderno. E in quel disperato tentativo di Villeneuve di proseguire su tre ruote c’è tutto il suo carattere di pilota che non voleva arrendersi mai. E che non si rassegnava alla fragilità della meccanica.
Fu dopo quell’impresa disperata che mio padre Marcello, ammaliato dalla guida e dalla determinazione di Villeneuve, ne divenne suo primo tifoso e coniò su Autosprint lo slogan della febbre Villeneuve. Abbiamo tutti la “febbre”, siamo eccitati per le imprese di Gilles, questo era il concetto che voleva trasmettere ai tifosi ferraristi. I quali seguirono in massa Autosprint. Fu realizzato anche un simbolo per la “febbre”: un termometrino stilizzato adesivo con l’icona del casco di Gilles e la “febbre” sull’indicatore del termometro fissa a 40°; l’adesivo allegato ad Autosprint divenne un gadget di grande successo. Ed era frequente vederlo attaccato sui vetri posteriori o sui portelloni posteriori delle automobili per distinguersi. Per far capire agli altri che chi guida quell’auto apparteneva a un club di appassionati esclusivo e viscerale. Proprio come oggi molti fan attaccano la mela bianca morsicata della Apple.
Ai tifosi Villeneuve piaceva perché era spettacolare, capace di imprese impossibili ed era il principale motivo per cui valeva la pena pagare il prezzo del biglietto di un Gran Premio. A Enzo Ferrari Gilles piaceva perché era uno che non si risparmiava: portava al limite le sue automobili e maciullava la meccanica stimolando i suoi progettisti a costruire auto sempre migliori e più solide. Solo a una certa F1 un po’ altezzosa, le imprese esagerate di Gilles facevano storcere il naso. Alcuni piloti lo reputavano un pericolo pubblico perché guidava sempre al limite; diversi giornalisti e opinionisti lo snobbavano perché il suo atteggiamento spavaldo ed emotivo era così lontano dal freddo e razionale comportamento di Niki Lauda che aveva introdotto in F1 il concetto del pilota-computer, insensibile alle emozioni e portato a dosare al minimo i rischi. Gilles era l’esatto contrario.
Che poi, a ben vedere, Gilles era molto più pignolo di quanto apparisse; certi comportamenti esibizionistici al volante non erano fini a se stessi o fatti per il gusto di divertirsi e basta, ma avevano una ragione logica. Ad esempio, quando partiva sgommando in una nuvola di fumo al via del giro di ricognizione mentre tutti si avviavano con cautela, la sua sembrava una goliardata inutile e a volte veniva rimbeccato per quello. Un giorno invece Gilles spiegò ai criticoni che lo ascoltarono inebetiti che lo faceva non per esibizionismo ma per una ragione precisa: facendo patinare le ruote gommava meglio la piazzola di partenza. Infatti poi al via era sempre capace di partenze fulminanti non soltanto perché era più bravo nello stacco frizione ma anche perché le sue gomme avevano più grip sull’asfalto.
Suona strano, ma Villeneuve era anche un buon collaudatore. Infatti a Forghieri piaceva. Era bravo per due motivi: primo perché portava le macchine davvero al limite e strapazzava, anzi maciullava, gli organi meccanici, quindi spingeva i tecnici a migliorarsi nella progettazione e costruzione perché i pezzi dell’auto potessero durare più a lungo. E poi aveva una grande sensibilità per comprendere le doti della macchina e gestire l’aderenza precaria. Gli veniva dall’esperienza alla guida con le motoslitte dove aveva corso a vent’anni diventando anche campione del mondo di specialità. La motoslitta curva in perenne sottosterzo e la cosa più difficile è gestire lo slittamento dei pattini in rettifilo e in curva in trazione e in rilascio. Maturò così una grande sensibilità di guida che a Gilles servì quando si trattò di scaricare a terra i 500 cavalli delle F1 dell’epoca. Specie sul bagnato e in condizioni di aderenza precaria. Ecco perché sapeva fare i traversi come nessun altro, anche se spesso oltrepassava i limiti della monoposto. Dalla motoslitta ereditò anche un trucchetto che gli servì quando si doveva correre in F1 sotto la pioggia e il freddo del respiro nel casco rischiava di appannare la visiera: si fissava un pezzetto di nastro adesivo sopra il naso per indirizzare il respiro nel casco verso il basso nel casco invece che contro la visiera. Un trucco dei motociclisti che in auto non era conosciuto.
Gilles fu il primo pilota F1 ad applicare alle monoposto una tecnica di guida puramente rallistica: quella del piede sinistro sul freno. Uno stile nato nei paesi nordici e sul ghiaccio con le trazioni anteriori per annullare il sottosterzo e portare l’auto a sbandare col retrotreno. La tecnica prevede che in curva si schiacci contemporaneamente il gas col destro e il freno col piede sinistro; a quel punto le ruote anteriori, benché frenate, girano lo stesso e generano motricità perché ricevono potenza dal motore; le posteriori invece restano frenate e in quel modo innescano lo sbandamento del retrotreno che il pilota corregge col controsterzo. L’effetto è quello di voltare in sovrasterzo percorrendo più velocemente la curva invece di “smusare”. Villeneuve applicò questa tecnica in F1 quando cominciò a guidare la Ferrari 126 CK Turbo. I primi motori sovralimentati avevano un grande ritardo di risposta, che in gergo si chiama turbo lag. Tra il momento in cui il pilota schiacciava il gas e quello in cui i turbocompressori soffiavano potenza alle ruote, passava un tempo lunghissimo per la reattività tipica di un’auto da corsa. A volte anche un secondo. È un difetto puramente tecnico che oggi l’elettronica ha quasi del tutto eliminato. Invece un tempo, fra il momento in cui i gas di scarico generati dal motore mettevano in movimento le turbine, le quali a sua volta facevano girare i compressori che mandavano più aria e benzina dentro il motore per generare più potenza e quello in cui questa potenza arrivava realmente alle ruote, finiva per passare un lungo intervallo. Il turbo-lag.
Gilles per ovviare al grave turbo-lag della Ferrari 126 Turbo, che fece? Applicò la tecnica rallistica di guida del sinistro sul freno. In staccata, invece di togliere il destro dal gas e frenare come facevano tutti, frenava col sinistro per poter usare il destro a inizio curva per tenere premuto il pedale il gas. Il motivo non era, come nei rally, di eliminare sottosterzo ma far salire di giri in anticipo il motore, tenere in pressione le turbine e disporre di un motore più pronto a spingere e già in coppia alla successiva riaccelerazione.
Oggi tecniche di guida così funamboliche ma artigianali sono scomparse perché l’evoluzione tecnologica delle F1 le ha rese inutili. Oggi è il computer che controlla il motore. Il pilota si limita a schiacciare a fondo il pedale del gas o quello del freno. Non esiste più l’arte di saper dosare la pressione su un pedale o virtuosismi come il punta-tacco in cui Stewart era maestro, il sinistro sul freno di Villeneuve o lo stile del “gas telegrafato” che praticava Senna. Nella F1 moderna è il computer di bordo che gestisce ogni cosa e sostituisce l’apporto del pilota. Ecco perché chi ha vissuto quelle epoche gloriose in cui il pilota faceva la differenza o poteva permettersi di dire – come fece Villeneuve con Enzo Ferrari – “Basta che mi diate una macchina anche solo mezzo secondo più lenta, poi il resto ce lo metto io”, oggi rimpiange le corse e i piloti d’un tempo. I veri cavalieri dei Rischio di cui Gilles era l’emblema.
L’autore dell’articolo con Johanna Villeneuve e la copertina del numero speciale di Autosprint su Gilles a Imola nel 2015.