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La pazza sfida di Alonso di disputare la 500 Miglia di Indianapolis ha calamitato l’attenzione dei fan sul web. Ma quanta ignoranza del popolo dei social dietro a questa vicenda! È quasi divertente vedere le reazioni dei tifosi che l’hanno sparata uno più grossa dell’altro. Divertente se non fosse invece grottesco perché certe sparate nei commenti sottolineano tutta l’ignoranza e la pochezza di quanto è capace il popolo del web. Se ci si mette a leggere quello che è venuto fuori sull’argomento, cadono le braccia.

La McLaren F1 MCL32 2017 di Alonso motorizzata Honda

Un amico mi segnala sul web la seguente frase: “Cosa ci andrà mai a fare a Alonso a Indy con questa McLaren che fatica a stare davanti alla Sauber?”. Complimenti vivissimi all’autore! Il quale non sa che a Indianapolis corrono monoposto completamente diverse dalle F1. Che – per inciso – sono monotipo.
Ripeto per chi non lo sa: a differenza della F1, l’IndyCar impone ai team telai di un solo costruttore. Da dieci anni i telai sono sono tutti costruiti dalla italiana Dallara; i motori invece sono di due costruttori: Chevrolet oppure Honda. E si tratta di V6 turbo 2,2 litri da 700 cavalli vecchia maniera e non hanno niente a che fare coi turbo ibridi della F1. Perciò la macchina di Alonso sarà una Dallara-Honda, mica una McLaren. La squadra inglese ha soltanto fatto l’iscrizione formale alla gara e darà all’auto il suo storico colore arancione. Ma la monoposto di Alonso verrà gestita in pista dal team di Andretti (Michael, non Mario) che ha vinto le edizioni del 2014 e 2016, e che assieme a quelle di Ganassi e di Penske è una delle squadre top della IndyCar.

Penske quando era pilota nel 1963 e in alto oggi

Tra l’altro – inciso per i curiosi – pochi sanno che Roger Penske, icona dell’automobilismo Usa, ha radici molto forti in Italia. Da noi Penske possiede parecchie concessionarie BMW e Audi a Bologna e Milano; e fino allo scorso anno era proprietario della VM di Cento, in provincia di Ferrara, che produce i motori diesel di grossa cilindrata di Alfa Giulia, Maserati Ghibli e di altre vetture FCA. Strano, vero, quanti intrecci a volte sconosciuti ci sono tra motorsport e industria automotive tradizionale?

Andiamo avanti con gli istruttivi commenti-farsa sul web. Un altro scrive in una risposta a un articolo: “Alonso? Chi, la grande star che sta in F1 per vedersela con i comprimari?”. Bella scemenza, come se Alonso facesse apposta ad avere una monoposto scadente per giocarsela con i più deboli.
Un altro ancora sputa tutto il suo livore sullo spagnolo “reo” per lui di aver detto che se ci fosse stato Dennis, non avrebbe mai corso ad Indy. Quello che questo tifoso dice su Alonso sono parole abbastanza spregevoli: “In Ferrari hai fatto credere a tutti che il valore eri tu e non la macchina… e ti sei giocato un titolo perché non hai avuto le capacità e le palle di superare un cagnaccio russo (Petrov)… La capacità della nuova dirigenza McLaren è ancora tutta da dimostrare, come la tua che hai all’attivo due titoli dubbi e tanti episodi (discutibili)”. E così via. Che Fernando abbia lasciato strascichi di antipatia dopo la sua epoca in Ferrari ci sta, ma un conto è criticare l’uomo e certe sue scelte umorali, un conto è accusare il pilota. Che non si può mettere in discussione. E non si può alterare la storia solo perché ti sta antipatico l’uomo. Tra l’altro, a proposito dell’ipotetico veto di Dennis su una potenziale operazione Alonso-Indy, Fernando ha pienamente ragione! Visto che fu proprio Dennis a impedirgli un anno fa di correre a Le Mans con la Porsche.

Un’altra tipologia dei tifosi del web sono quelli che parlano a sproposito. E che dovrebbero rimangiarsi le cose subito dopo averle dette perché non hanno l’umiltà di leggere una riga oltre. Come quello che su un sito ha subito bollato la notizia come fasulla: “Non credo, ha un contratto con McLaren…non e’ senza contratto! È probabilmente un fake…”. Almeno fare lo sforzo di leggere le righe sottostanti no? C’era scritto chiaramente che la sfida nasce invece proprio da un progetto comune McLaren-Alonso.

Il via della 500 Miglia di Indianapolis, con 33 vetture che scattano sul rettifilo

Elencato un campione del peggio del web sull’argomento, a beneficio dei veri appassionati cerchiamo invece di capire le ragioni per cui Alonso ha accettato questa sfida. Le risposte sono: un po’ per curiosità, un po’ per convenienza e un po’ per romanticismo.

Alonso sa benissimo di essere tagliato fuori da un risultato positivo in F1 vista la pochezza attuale della sua McLaren-Honda F1. Anche se proprio a Montecarlo l’anno scorso ottenne il miglior risultato della sua storia recente in McLaren: un 5° posto. Ma lui che ambisce a vincere in F1, non ha bisogno di piazzamenti da comprimario. Indy dà l’occasione (a lui e alla McLaren) per andare in prima pagina come ormai non riesce più a fare con la F1. E con risvolti positivi, non negativi.

La brickyard, i mattoncini che erano il rivestimento originale dell’ovale di Indianapolis e di cui oggi è rimasta soltanto una simbolica striscia sul traguardo

Poi c’è la componente romantica. Il piacere di una nuova sfida. Alonso è uno degli ultimi piloti romantici – nel senso letterario del termine – e contemporanei. L’ultimo discendente di quei campioni legati non soltanto alla F1 come apice dell’automobilismo ma al motorsport nel suo complesso. Com’erano Graham Hill, Andretti, Jacky Ickx, Fittipaldi, fino a Mark Webber, forse il più recente prima di lui. Campioni cresciuti in un’epoca dove la F1 era soltanto una delle specialità, nemmeno la più importante. E il corridore professionista saltava da una domenica all’altra dal volante di una F1 a una vettura Sport Prototipo. Rispettava tutte le categorie, dalla prima all’ultima. E non guardava dall’alto in basso le corse diverse dalla F1, come l’Endurance o gli ovali americani, che richiedono attitudine a approccio differenti. Ma non minore abilità di guida.

Alonso è un pilota con cultura d’altri tempi; può essere antipatico a certi tifosi, ma è un campione poliedrico. Conosce la storia del motorsport, le radici di questo sport, i nomi dei campioni del passato e il mito che certe competizioni rappresentavano nell’immaginario dei tifosi prima che la supremazia commerciale e sportiva della F1 uccidesse il resto dell’automobilismo. E ha anche il mito della Triple Crown, la triplice corona. Un trofeo che oggi nessuno sa più cosa sia ma negli Anni Sessanta era considerato un obiettivo ambitissimo.

La Triple Crown è un trofeo nato più di cent’anni fa nel mondo dell’ippica, sport che agli albori aveva molto in comune con l’automobilismo. Nell’ippica veniva assegnata al cavallo che vinceva le gare più prestigiose a livello internazionale. E per traslazione, si è pensato di chiamare con questo nome la simbolica vittoria nelle corse automobilistiche più difficili e famose: la 24 Ore di Le Mans, la 500 Miglia di Indianapolis e il GP Monaco F1. Quest’ultimo scelto non per la velocità (è il circuito più lento del mondiale F1) ma per la difficoltà fisica che richiedeva all’epoca guidare per due ore intere fra i marciapiedi di Montecarlo e per il palcoscenico glamour della gara.

Graham Hill (2 volte iridato F1) nella vittoriosa gara a Indianapolis 1966 in cui si impose con una Lola-Ford

C’è un solo pilota nella storia della F1 che ha conquistato la Triple Crown: Graham Hill. Che conquistò ben cinque volte il GP di Monaco (e due volte il titolo mondiale F1); poi nel 1966 vinse Indy 500 quando raramente i piloti europei andavano a gareggiare sull’ovale americano; e infine a fine carriera, nel 1972, vinse la 24 Ore di Le Mans con la Matra-Ford. Negli anni il significato della Triple Crown si è esteso dal solo GP Monaco all’intero mondiale F1. Ma nessun altro pilota è mai riuscito a eguagliare Hill. Tanti hanno fatto doppietta: Andretti e Fittipaldi hanno vinto F1 e Indy 500, ma non Le Mans. Jochen Rindt ha trionfato a Le Mans, nel GP Monaco e nel mondiale F1, ma non ha mai tentato l’avventura a Indy. L’americano A.J. Foyt, mito delle corse Usa, ha fatto il contrario: ha conquistato la 24 Ore di Le Mans e la 500 Miglia di Indianapolis, ma non ha mai corso in F1. L’unico ad andarci vicino è stato Jacques Villeneuve, che dopo aver espugnato Indy 500 (1995) e il mondiale F1 (1997) ha cercato disperatamente il successo a Le Mans per ben due volte, finché nel 2008 ha sfiorato la vittoria finendo secondo con la Peugeot 908 dopo aver guidato la gara per parecchie ore.

Alonso, che è un pilota romantico ma anche molto ambizioso, messa da parte la spreca di vincere un terzo mondiale con Ferrari o McLaren, sa bene che se vuole un posto nella leggenda del motorsport deve provare a fare quello che solo Graham Hill ha compiuto: vincere le gare più prestigiose del mondo: la Triple Crown. Da tempo, fin da quando nel 2014 fece da starter alla 24 Ore, insegue il mito di Le Mans. Un anno e mezzo fa, quando la 24 Ore non era coincidente con la F1, stava per accordarsi con la Porsche per guidare la terza 919 Hybrid: poi si intromise Ron Dennis che pose il veto. Così la Porsche, in cerca di una star che attirasse l’attenzione sulla sua terza vettura, al posto di Alonso ingaggiò Hulkenberg che vinse la 24 Ore!

Ora che è maturata una bella occasione per la 500 Miglia di Indianapolis, Alonso fa bene a rinunciare a un piazzamento da metà classifica a Montecarlo per inseguire il sogno di vincere la corsa miliardaria che da sola vale un intero mondiale. I numeri per mettersi in luce li ha: il talento di guida è indiscutibile, ha una visione tattica di gara come pochi altri e a Indy la strategia è fondamentale; deve solo imparare a fare le curve in scia a 350 km/h – cosa che è innaturale per un pilota F1 – e soprattutto imparare a rispettare il muro di Indy, che ha spezzato ben altre ambizioni in passato. Quel muretto su cui già dieci anni fa, quando la F1 faceva tappa sul circuito Usa, si è schiantato una volta con la Renault.

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