Vent’anni fa e sembra ancora ieri. Era il 25 aprile 2001 quando Michele Alboreto trovò la morte in un incidente durante un collaudo della Audi R8 prototipo di Le Mans in Germania, sulla pista del Lausitzring. Lo stesso circuito dove pochi mesi dopo (a settembre) avvenne il drammatico incidente di Zanardi.
Michele era l’impersonificazione perfetta del pilota-gentiluomo. L’ultimo gentleman driver di un’epoca che non c’è più da tempo. Quella categoria di corridori che mettevano l’educazione, la signorilità e la disponibilità verso colleghi ed addetti ai lavori sopra ad ogni altra caratteristica caratteriale. Michele era di origini semplici, ma non si è mai montato la testa diventando uno sportivo di fama mondiale. Denaro e popolarità non lo hanno cambiato, come invece è capitato a tanti altri personaggi dello sport o dello spettacolo che si sono montati la testa. Alboreto no: ha sempre mantenuto quel carattere schietto e semplice degli inizi. Ha vissuto con discrezione e umiltà il suo ruolo di pilota. Proprio lui che è stato per cinque anni pilota Ferrari in F1 e quindi completamente al centro dell’attenzione; eppure è riuscito a non far mai parlare di sé per gli eccessi o per le polemiche, quanto per il suo stile e per l’altruismo del proprio comportamento. Nadia, sua moglie, e le due figlie Alice e Noemi possono essere fiere di aver avuto un marito e un padre che ha dato lezione di stile e di comportamento a tutto il mondo della F1.
Anche con noi giornalisti è sempre stato corretto, educato e sincero. Mi ricordo una sola unica sua (palese) bugia. Quando al GP di Monza del 1986 si presentò al venerdì mattina alle prove libere con la spalla destra dolorante e contusa. Disse che era scivolato facendosi la doccia la mattina ma in realtà, come scoprimmo poco dopo, si era fatto male in una caduta con una moto da cross durante una sfida fra amici il pomeriggio prima nel parco della villa dell’amico che lo ospitava per il week end monzese. Non poteva confessarlo perché il contratto con la Ferrari gli proibiva gli sport pericolosi. Tutti avevamo capito e non insistemmo per non metterlo in imbarazzo nel ripetere la bugia. LA Ferrari convocò a Monza il dr. Costa, il medico dei motociclisti, per assisterlo e curarlo e il giorno successivo in qualifica, nonostante il dolore alla spalla, Michele strappò il decimo tempo con una Ferrari che quell’anno era tutt’altro che competitiva.
Era un gentleman e se n’è andato in silenzio, con discrezione, con la stessa discrezione che ha sempre caratterizzato la sua carriera di pilota. Un incidente lassù in Germania, durante un test privato, a porte chiuse mentre collaudava l’ancora acerba Audi R8 per l’imminente 24 Ore di Le Mans. Di quel drammatico incidente ci restano soltanto poche immagini della vettura, quasi intatta ma senza carrozzeria, che non fanno assolutamente presagire a vederla così la drammaticità della dinamica. Purtroppo Michele, a causa di una gomma che si era afflosciata, aveva perso il controllo della R8 che era decollata su un cordolo ribaltandosi; nella ricaduta sul terreno ha provocato le mortali ferite vertebrali al pilota nell’abitacolo che non era adeguatamente protetto dal roll-bar.
Alboreto ha pagato una serie di approssimazioni costruttive di quell’auto (Audi era solo all’inizio della sua lunga avventura a Le Mans) fra cui proprio il roll bar di protezione singolo, stile monoposto, invece che a tutta larghezza dell’abitacolo come sarebbe diventato poi, che non lo ha protetto a sufficienza nel capottamento.
Di Alboreto ci restano pagine di storia automobilistica memorabili che è giusto che i ragazzi del XXI secolo conoscano per apprezzare una differente maniera di essere sportivi e piloti. Non superstar del jet set e dei social, ma campione umile che in nessun momento ha mai scordato le difficoltà del proprio inizio rendendo sempre omaggio a chi gli aveva permesso di diventare pilota. Alboreto è uno dei pochi corridori di F1 dell’età moderna che non ha cominciato correndo in kart da ragazzino perché proveniva da una famiglia con poche disponibilità economiche. Iniziò frequentando da appassionato – come uno dei tanti – l’autodromo di Monza. Entrando nei paddock da semplice tifoso per sfamare la sua passione alla vista delle auto da corsa di ogni categoria. Dovette aspettare i vent’anni per guidare la sua prima auto da corsa. Una Formula Monza, la monoposto addestrativa dell’epoca con il motore bicilindrico a sogliola della Fiat 500 Giardiniera. Un giorno conobbe un pilota locale, Mario Simone Vullo, che vista la grande passione del giovane Michele, gli fece provare la sua monoposto di Formula Italia. Alboreto salì, guidò in maniera deliziosa pur avendo ancora poca esperienza e stupì talmente Vullo che lo prese nella sua squadra.
Da lì decollò la sua carriera che appena due anni dopo lo portò a vincere il campionato europeo di F3 e gli spalancò le porte della F1. Anche qui Alboreto entrò grazie a un mecenate: il conte Gughi Zanon. Un nobile appassionato di corse. Quei personaggi che nell’automobilismo di oggi non esistono più ma che negli anni Sessanta e Settanta per pura passione mettevano i propri capitali a disposizione dei piloti giovani e senza mezzi economici per aiutarli e farli crescere nello sport che tutti loro amavano. Zanon appoggiò la carriera prima di Ronnie Peterson, poi di Riccardo Patrese e infine di Michele Alboreto. Non ci fosse stato il conte Zanon a spianare la strada a questi corridori, forse non sarebbero mai diventati i campioni che sono stati in F1. Ben altra cosa rispetto ai procuratori di oggi che aiutano sí i piloti a trovare finanziamenti ma speculano su di loro con contratti a lunga durata per prendersi ricche percentuali.
Di Alboreto mi ricorderò sempre due episodi: uno è il primo podio in F1, conquistato a Imola nel 1982 con la Tyrrell nella famosa gara dello sgarbo di Pironi a Villeneuve. Si parlò talmente tanto di quella vicenda tra i ferraristi da mettere in ombra quella che era stato una prestazione clamorosa di Alboreto. Un italiano sul podio nella gara di casa ad appena dodici mesi dall’esordio in F1. Imprese che capitano raramente.
L’altro fu la stagione 1985, il suo momento d’oro in F1. Quando vinse due Gran Premi con la Ferrari F1/85 in Canada e Germania diventando il favorito per il titolo mondiale. Se se non fosse stato per i quattro ritiri consecutivi nelle quattro gare finali per la fragilità di quella Ferrari rallentata dai guai delle turbine tedesche Kkk, Alboreto avrebbe potuto togliere ad Alain Prost il titolo mondiale di quell’anno e diventare il solo italiano a succedere ad Alberto Ascari nell’albo d’oro della F1 trent’anni dopo.
All’epoca non ce lo saremmo immaginati, ma Alboreto grazie a quelle imprese, è entrato nell’albo dei record come l’ultimo italiano a vincere un Gran Premio con una Ferrari. Appunto quello di Germania al Nurburgring nell’agosto 1985. Troppo poco per riassumere la carriera di un grande campione che ha insegnato al mondo cone si può essere un pilota F1 vivendo con stile e misura.
Alboreto era un uomo che non ha mai scordato le proprie origini semplici; aveva il talento ma non i soldi e ha sempre rispettato e ricordato chi lo ha aiutato e gli ha fornito i mezzi che non aveva per iniziare a correre. Per questo nella parte finale della sua carriera è entrato nella CSAI: voleva contribuire a cambiare le regole di questo sport per aiutare i giovani privi di mezzi ad emergere in uno sport costoso ed elitario. Senza la tragedia del Lausitzring sarebbe diventato sicuramente presidente dell’ACI e chissà oggi sarebbe forse l’ideale esponente del dopo-Todt alla presidenza Fia. Oppure il perfetto capo del reparto corse Ferrari.
A Michele ho dedicato anche questo articolo dello scorso anno che vi invito a leggere.