Il 10 gennaio 1971, 50 anni fa esatti, moriva Ignazio Giunti. Uno dei più forti piloti automobilistici italiani di quei primi anni ‘70. Un incidente capitato alla 1000 km di Buenos Aires, prima prova del campionato del mondo Marche (come allora si chiamava quello che oggi è il WEC). La Ferrari di Giunti investì a oltre 200 km orari la Matra di Jean Pierre Beltoise ferma in mezzo alla pista in una curva cieca che il francese stava follemente spingendo incurante del rischio che procurava a se stesso e agli altri piloti.
Fu una tragedia enorme per l’automobilismo italiano, una tragedia che ho vissuto in prima persona perché Giunti, anche se ero soltanto un ragazzo all’epoca, lo conoscevo bene perché era amico della mia famiglia.
La morte di Ignazio Giunti non fu soltanto una dramma per il motorsport italiano, ma fu anche una vicenda drammatica che scatenò polemiche a non finire per il modo in cui avvenne. E che per la prima volta scardinò la tutto sommata confortante tesi della fatalità nelle corse automobilistiche che fino a quel giorno aveva giustificato ogni incidente sollevando le coscienze di tutti. Perché Giunti non fu ucciso semplicemente dal destino avverso, ma dall’incoscienza dell’uomo. Nella fattispecie dall’imprudenza e dalla leggerezza di almeno altri due piloti e dalla impreparazione dei commissari di percorso argentini che non segnalarono adeguatamente il pericolo e non intervennero per prevenirlo.
Giunti fu ucciso anche dal principio strisciante che fino a quel giorno dominava il mondo dell’automobilismo: che nelle corse tutto più o meno fosse permesso. Un pilota era abbandonato a se stesso. Doveva contare sulle sue sole forze e prendersi grandi rischi per farsi largo tra gli avversari, ma non era tutelato in alcun modo. Uno poteva ostacolare apertamente e danneggiare un rivale senza che venissero presi particolari provvedimenti a suo carico. Leggendaria l’abitudine di Jack Brabham in F1 di derapare apposta fuori pista quando era tallonato da un avversario per sparare pietrisco e sassolini addosso a chi lo inseguiva per metterlo in difficoltà. E il personale di servizio sui circuiti non aveva grosse responsabilità, non era tenuto a impedire situazioni critiche. E non doveva rendere conto a nessuno della propria “pigrizia” operativa.
Invece dopo quella tragedia il mondo delle corse prese coscienza che non si poteva permettere proprio davvero tutto. Va bene gli eroi, va bene i cavalieri del rischio, va bene che fosse uno sport individuale ma un minimo di rispetto e di tutela per i rischi che i piloti correvano ci voleva. E furono varate norme comportamentali che imponevano più severamente una precisa condotta. Per evitare di accrescere il pericolo che già era insito di suo nelle corse automobilistiche. Regole che oggi diamo per scontate ma che una volta non esistevano. Come la proibizione di spingere la macchina in mezzo alla pista perché si crea un pericolo inutile per sé e per tutti gli altri. Oggi il pilota, se l’auto si spegne, deve portarla bordo pista sull’abbrivio e non invadere la pista per arrivare più lontano possibile. Oggi che insultiamo Masi, il direttore di corsa della F1 tutte le volte che fa uscire una safety car reale per un nonnulla – perché magari c’è un pezzetto di ala in mezzo al circuito – ricordiamoci sempre che Giunti, per colpa del principio egoistico di evitare di congelare la competizione per rimuovere un ostacolo, ci ha perso la vita.
Della dinamica della tragedia di Giunti ormai sappiamo quasi tutto anche se sono passati cinquant’anni esatti. Il pilota romano investì in pieno la Matra di Beltoise che era in mezzo alla pista, in una curva cieca, nascosta alla vista di chi arrivava. Ma ormai è evidente che fu un concorso di colpe di più persone. Per primo di Beltoise, che ha sempre sostenuto fosse un suo diritto spingere un’auto senza benzina fino ai box per rifornire e cercare di ripartire. Anche se così facendo era diventato una specie di mina vagante in mezzo al circuito. All’epoca le regole erano ambigue. Non c’era una norma di comportamento unica rilasciata dalla federazione. Nelle gare di Formula era vietato spingere, in quelle di durata con i Prototipi non era ben chiaro. Il comportamento era rimandato al regolamento di ogni specifica gara. E le norme di quella argentina erano vaghe.
Per cui dopo la tragedia, anche nel mondo degli addetti ai lavori le opinioni furono contrastanti: alcuni piloti accusavano Beltoise, altri lo difendevano sostenendo che si faceva tutti così. E che semmai toccava ai commissari fermare il pilota, non al corridore che in quel momento è incapace di giudicare cosa va fatto e cosa no e che pensa solo a riportare l’auto ai box sennò fa brutta figura col team.
Altra grave responsabilità fu quella dei commissari che segnalarono poco o nulla la presenza dell’ostacolo in mezzo alla curva. Con l’aggravante che Beltoise spinse la macchina per quasi cinque minuti non in linea retta, ma portandola dal lato sinistro a quello destra e viceversa, zigzagando per sfruttare favorevolmente la lieve pendenza del circuito in quel punto. Così i piloti se la trovavano ad ogni giro in un punto cieco diverso della curva.
Terzo responsabile fu Mike Parkes con la sua Ferrari 512. Il doppiato che stava precedendo Giunti e coprì fino all’ultimo istante la vista dell’ostacolo in mezzo alla pista e non fece nulla per agevolare Giunti e permettergli di schivare la Matra. Anzi si spostò solo all’ultimo istante. Anche se lui che aveva visibilità davanti, l’ostacolo doveva averlo visto ben prima. Forse, chissà, c’era un po’ di orgoglio ferito nel suo comportamento. Parkes aveva una macchina più veloce ma era doppiato. Magari voleva impegnare Giunti allo spasimo invece di agevolarlo, non lasciarsi passare così facilmente per un motivo di presunzione o di rabbia. Fatto sta che fino all’ultimo chiuse la visuale davanti a Giunti e quando si spostò la Ferrari di Ignazio si trovò davanti di colpo l’ostacolo e lo centrò in pieno.
L’impatto fu così terrificante che Giunti morì sul colpo. Il medico disse che ci fu un arresto cardiaco causato dal contraccolpo. Probabilmente nell’impatto si spezzò anche le vertebre cervicali, vista la posizione innaturale del collo del del pilota nell’abitacolo quando fu estratto dai rottami. Insomma, anche se divampò un incendio drammatico, le fiamme fecero solo da tragica coreografia: Giunti non fu ucciso dal fuoco. Era già morto prima: per via del devastante impatto.
Un tragico elemento sfortunato fu il fatto che la Ferrari 312 PB aveva il posto guida a destra, non a sinistra come si usa oggi. Giunti impattò contro il posteriore della Matra col lato destro dell’auto quindi dalla parte del sedile di guida. Probabilmente se l’abitacolo fosse stato a sinistra chissà, le conseguenze avrebbero potuto essere diverse perché il lato sinistro della Ferrari appare quasi intatto come si vede dalle foto.
Tante volte ricordando le tragedie del passato si dice: e se fosse successo oggi cosa sarebbe potuto succedere? Stavolta la risposta l’abbiamo sotto gli occhi. basti pensare a Grosjean e al suo drammatico crash in Bahrain poche settimane fa. Non ha colpito un’altra auto, ma un guard rail e non so cosa sia peggio. Però Grosjean ne è uscito fuori. Con le proprie gambe. Da solo. Ma se questo miracolo nel suo caso è capitato e nel caso di Giunti purtroppo no, la spiegazione viene da due parti. Una è la migliorata sicurezza. Certo le F1 di oggi sono immensamente più sicure di com’era la Ferrari 312 Prototipo di Giunti di 50 anni fa. Che aveva i serbatoi esposti all’urto, il posto guida non protetto ed era priva di strutture anti-crash anteriori. Ma l’altra spiegazione viene dagli uomini. Oggi comportamenti irresponsabili come quelli di Beltoise non potrebbero accadere. Perché ci sono regole che vengono fatte rispettare ed è soprattutto cambiata anche la coscienza, l’attenzione e il rispetto dei piloti. Verso se stessi e verso gli altri. Almeno il sacrificio di Giunti è servito a qualcosa.
Bellissimo articolo Alberto, è sempre un piacere leggere quello che scrivi.