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Ormai è assodato: la Ferrari è purtroppo diventata la terza forza del mondiale. Scavalcata ampiamente dalla Red Bull che fino a ieri era soltanto una comprimaria, il terzo incomodo del campionato, e adesso è invece diventata la squadra emergente. La vera sfidante della Mercedes. Lo dicono i fatti ma anche i numeri: nelle ultime 4 corse la Red Bull ha conquistato due vittorie, una prima fila e una pole position contro 4 podi e una pole della Ferrari. Fanno 108 punti dei “bibitari” contro i 90 del Cavallino. L’unico sorpasso che non si è concretizzato è quello in classifica Costruttori, dove la Red Bull è ancora staccata di 44 punti dalla Ferrari perché sta scontando i punti persi a inizio stagione e corre praticamente con un pilota solo. 

La crisi della Rossa a Budapest nel GP di inizio agosto è sottolineata dall’enorme distacco accumulato in gara. Quant’è che una Ferrari non prendeva più di un minuto dal vincitore in una gara regolare (cioè senza safety car)? Volete saperlo? Sono ben tre anni! Ovvero dal GP Gran Bretagna 2016 dove Raikkonen e Vettel terminarono fuori dal podio, staccati di 1 minuto e 9 secondi l’uno e di 1 minuto e 31 secondi l’altro. Quella del 2016 era una Ferrari F1 disastrosa, incapace di vincere un solo GP in tutta la stagione. Purtroppo questa SF90 sembra della stessa pasta. 

Il risultato del GP Ungheria 2019 è una doccia fredda sui progressi che si augurava Binotto. Solo alla vigilia della gara ungherese il team principal ferrarista esprimeva positività. Si diceva confortato perché le piccole evoluzioni introdotte in questi mesi sulla SF90 avevano finalmente permesso di migliorarne la performance. L’andamento della corsa ha smentito tutto. In Australia, al primo GP stagionale le Ferrari erano finite staccate rispettivamente di 57” e 58” dal vincitore Hamilton. Dopo 12 corse, in Ungheria, il distacco è addirittura aumentato: 1’01” e 1’05”. Che significa un divario medio di 0”87 decimi al giro. Quasi un secondo. Una differenza enorme. Superiore a quella che Vettel e Leclerc hanno rimediato in qualifica che era di 4 decimi. 

Perché la Rossa sta andando così male ormai lo sappiamo. Mancanza di carico aerodinamico che penalizza la Ferrari soprattutto nelle curve più lente. La parola chiave – imparatela bene – DOWNFORCE che in inglese significa “forza verso il basso”, ovvero deportanza, carico aerodinamico o come diavolo volte chiamarlo. Si tratta dell’aderenza a terra generata dal passaggio dell’aria sull’intero corpo vettura e specialmente sotto di esso, dove agiscono fondo ed estrattore. Vettel identifica con chiarezza il male oscuro della SF90: «Ci manca downforce». E Binotto spiega perché il disavanzo sul giro risulta più severo in corsa che in qualifica: «Se ti manca carico aerodinamico sul giro secco, puoi metterci una pezza grazie alle gomme nuove che garantiscono quel grip extra mancante; ma in gara il degrado della gomma amplifica il problema».

Mattia Binotto, team principal Ferrari

Purtroppo l’origine del problema risiede nella vettura. La Ferrari SF90 è una macchina nata male. È una monoposto sbagliata. È figlia di un progetto che ha privilegiato esageratamente il poco drag, cioé l’efficienza aerodinamica e la minor resistenza all’avanzamento, piuttosto che la deportanza in curva. Il drag ridotto rende la vettura velocissima sui rettifili perché oppone meno resistenza all’aria; ma la mancanza di downforce la fa diventare lenta in curva. 

Sono due caratteristiche in contrasto fra loro. Detto in soldoni, una macchina che sviluppa tanta downforce risulterà poco veloce in rettifilo proprio perché il corpo vettura che genera tanta deportanza “frena” in qualche modo la penetrazione nell’aria e quindi riduce la velocità. Viceversa, una macchina con poco drag sarà molto rapida sui rettilinei ma svilupperà poca deportanza in curva. 

I progettisti di monoposto F1 conoscono bene questa problematica e cercano sempre un compromesso fra l’una e l’altra caratteristica. Evidentemente quest’anno la Ferrari nel progetto SF90 si è spinta troppo oltre in chiave “poco drag” finendo per costruire una macchina sbilanciata a favore dei rettifili e penalizzata nelle curve. 

Maranello aveva fatto l’esatto contrario due anni fa: la SF70H a passo corto del 2017 sviluppava molta downforce ma generava tanto drag (resistenza all’avanzamento). Infatti si dimostrò eccellente nelle curve lente e sulle piste tortuose – tanto da vincere a Melbourne, Bahrain, Monaco, Hungaroring e Interlagos – poi però rimediò distacchi enormi in Messico, Monza e Malesia. Superiori al mezzo minuto in corsa. All’epoca si pensò che nel dubbio sarebbe stato meglio privilegiare l’efficienza in rettifilo piuttosto che quella nelle curve perché la maggior parte dei circuiti del mondiale F1 hanno caratteristiche veloci, non lente. Ma l’esperienza di quest’anno dimostra che non è così. 

La scarsa downforce inoltre contribuisce a creare altri problemi: nel caso del GP d’Ungheria si è visto che una machina con poco carico fa slittare le gomme posteriori che scivolando si degradano più in fretta. Ecco perché la Ferrari è sempre tra le prime a finire le gomme. Problema che su Leclerc, per via forse dell’assetto o del suo stile di guida, è più accentuato che su Vettel.

La verità è che serve una giusta via di mezzo. Com’è la Mercedes, efficiente sia nelle curve strette che sui rettifili. Già la stessa Red Bull è sbilanciata un po’ troppo verso la downforce in curva, al contrario della Ferrari. La RB 15 è un’auto che sviluppa tanta downforce e nelle ultime corse è emersa prepotentemente perché ha incontrato piste molto favorevoli alle sue caratteristiche (Silverstone, Hockenheim e Hungaroring) ma vedrete che già a Spa e sopratutto a Monza la sua prestazione si ridimensionerà a meno che i giapponesi della Honda non trovino qualche cavallo extra nel motore. 

L’ingegnere Enrique Scalabroni, argentino, con la Ferrari 640 di Prost che disegnò nel 1990

A questo punto la conclusione finale non voglio dirla io, la affido a uno che se ne intende molto di più: l’ingegnere argentino Enrique Scalabroni, l’uomo che nel 1990 realizzò la Ferrari 640 (raffinando il progetto di John Barnard) che permise a Prost e Mansell di giocarsi il mondiale F1 con Senna fino all’ultima corsa. Scalabroni prima ancora aveva contribuito a disegnare la Williams-Honda F1 che dominò il mondiale F1 1986 e 1987 con Mansell e Piquet e dopo l’esperienza a Maranello realizzò la Peugeot 905 che nel 1992 vinse la 24 Ore di Le Mans. Lui sa bene quali sono le linee-guida di una perfetta F1 perché anche se tecnologia e materiali si sono evoluti negli ultimi trent’anni, i principi di base restano di un’auto da corsa sempre gli stessi. Secondo l’ing. Scalabroni una F1 ha SEMPRE bisogno di sviluppare elevata downforce per essere competitiva in qualunque circuito. Meglio una monoposto che sviluppi tanta deportanza in curva piuttosto che una F1 rapidissima sul rettifilo e basta. Se non altro perché ogni circuito assomma più chilometri di curve che di rettifili!

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